Biografia di Corrado Alvaro

1895
1905

Corrado Alvaro nasce il 15 aprile 1895, primogenito dei sei figli di Antonio e di Antonia Giampaolo, a San Luca, un piccolo paese nella provincia di Reggio Calabria, sul versante ionico dell’Aspromonte. Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfabeti; la madre proviene da una famiglia della media borghesia. A San Luca trascorre un’infanzia felice, ricevendo la prima istruzione dal padre e da un vecchio maestro del luogo. Nelle sere d’inverno, accanto al camino, ascoltava il padre leggere alla madre gli autori prediletti: Manzoni, d’Azeglio, Balzac e Mastriani.

“Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati”.

Corrado Alvaro, “Memoria e vita”
1906
1914

Terminate le scuole elementari, nel 1906 è mandato a proseguire gli studi, come esterno, nel prestigioso collegio gesuitico di Mondragone, a Frascati. Nel 1907 sono ospiti dello stesso collegio i fratelli Beniamino e Guglielmo: studia e comincia a scrivere poesie e racconti. Come egli stesso riferirà, viene espulso dal collegio, dopo i primi anni di ginnasio, perché sorpreso a leggere testi considerati proibiti (l’Intermezzo di rime di D’Annunzio). Obbligato a cambiare scuola, è mandato nel collegio di Amelia, in provincia di Perugia, dove termina il ginnasio. Approda infine al Liceo «Galluppi» di Catanzaro, vivendo dapprima come ospite del convitto Tubelli, poi rievocato in Mastrangelina; ed ha tra i compagni di scuola Umberto Bosco, che ne ha ricordato l’acceso interventismo. Esordisce con un libretto dedicato a Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia (1912), che porta in calce la firma «Corrado Alvaro. Studente liceale».

“Caro padre, Buon Natale a voi e alla famiglia, ai fratelli, a tutti. Ho ricevuto tutto, e le scarpe anche, e non ero malato. La berretta ce l’ho e i quaderni anche, e credevo che i piccoli non li avessi e nemmeno i grandi, perché non ho visto nulla nel tavolino. E ora ci ho tutto, e non mi mandate niente piú, e fornitevi voi che la sera mangiate pane e ulive per me. E io ho anche le tre sedie, e la volontà di studiare, e di appagare i vostri desideri. La posata è già al rame, e il torrone lo avreste dovuto tenere per voi.”

Corrado Alvaro, lettera al padre
1915
1929

Nel gennaio del 1915, chiamato alle armi, è assegnato a Firenze, a un reggimento di fanteria, e segue il corso allievi ufficiali nell’Accademia militare di Modena, uscendone con il grado di sottotenente. All’inizio di settembre si trova in zona di guerra; a novembre è in prima linea, viene ferito alle braccia (il destro non guarirà mai completamente) sul Monte Sei Busi, nella zona di San Michele del Carso, e viene decorato con una medaglia d’argento. Nel 1917 escono a Roma le Poesie grigioverdi e l’anno dopo, l’8 aprile, sposa la bolognese Laura Babini, conosciuta durante la guerra, allora impiegata come ragioniera, più tardi traduttrice dall’inglese. Alla fine del 1919 si trasferisce a Milano, con la famiglia (nel frattempo gli è nato il figlio Massimo), perché assunto al «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, cui dedicherà nel 1925 un intenso profilo. Sul finire del 1921 si trasferisce a Parigi, come corrispondente del «Mondo» di Amendola, tornando a Roma un anno dopo per partecipare intensamente alla lotta antitotalitaria del quotidiano (è stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce; ed ha subìto anche, in un’occasione, la violenza dello squadrismo).

Dal 1926 comincia a collaborare a «La Stampa» e, in seguito, diviene segretario di redazione di «900»; nei primi mesi del 1929 è a Berlino, per una serie di corrispondenze commissionategli dall’«Italia letteraria»: essendogli sempre più difficile lavorare (e firmare) in Italia, comprende che è il momento di allontanarsene per poter poi rientrare, come non sarebbe stato possibile se si fosse stabilito a Parigi, dove convergevano tutti i fuorusciti politici.

“Per noialtri che eravamo studenti, quello era un giorno virile…. ci sentivamo adottati da quella storia nobile…”

Corrado Alvaro, articolo sulla guerra. “Il Mondo” (1924)
1930
1956

Nel corso del 1930 pubblica ben tre raccolte di racconti: Gente in Aspromonte, Misteri e avventure, La signora dell’isola; e il romanzo Vent’anni, il più intenso fra quelli italiani imperniati sulla Grande Guerra, che gli valgono il prestigioso (e remunerativo) premio letterario di «La Stampa». L’affettuosa amicizia con Margherita Sarfatti è determinante per stemperare l’inimicizia del regime e per consentirgli una «silenziosa renitenza», da nemico pacifico, nevroticamente domestico, con qualche scivolamento indebito (Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, andato in stampa nel 1934 per l’Istituto Naz. Fascista di Cultura: libro che Alvaro considerava un omaggio alla civiltà e non al fascismo). È indubbio che, in questa fase, la quota di riconoscenza per un governo totalitario che gli consentiva il pot boiler in patria abbia moderato la primitiva carica antagonistica (senza tuttavia mai giungere a prendere la tessera o aderire agli inviti di Mussolini), che poi torna ad accamparsi obliquamente nel romanzo distopico L’uomo è forte (1938): «una protesta contro il terrore», «contro le condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione, sia essa di Franco o di Mussolini o di Hitler o della Ghepeù», ed anche una catarsi terapeutica da una nevrosi ossessiva che gli impediva di «andare in pubblico, specie nei teatri» (dopo averlo scritto, «mi pareva di sentirmi scaricato, di avere potuto parlare, sia pure in forme coperte»).

Inizia a lavorare per il cinema, come sceneggiatore e soggettista, e tiene una rubrica cinematografica sulla «Nuova Antologia»; nel ’38 abbandona Mondadori per Bompiani, cui rimarrà sempre fedele, e nel 1940 riceve il premio dell’Accademia d’Italia per L’uomo è forte; per il teatro riduce I fratelli Karamazov di Dostoevskij e La Celestina di Fernando de Rojas.

Nel gennaio del 1941 torna per l’ultima volta a San Luca, per i funerali del padre; poi, più volte, a Caraffa del Bianco, in visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Dal 25 luglio all’8 settembre 1943 assume la direzione del «Popolo di Roma»: con l’occupazione tedesca della città, colpito da mandato di cattura, si rifugia a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi, e vive dando lezioni di inglese. Nel giugno del 1944 ritorna a Roma e viene a sapere che il figlio è prigioniero in Jugoslavia, poi partigiano nei dintorni di Bologna. Nel gennaio del 1945 fonda, con Francesco Jovine e Libero Bigiaretti, il Sindacato Nazionale degli Scrittori, di cui è segretario fino alla morte; nel marzo 1947 va a dirigere per tre mesi il «Risorgimento» di Napoli, da cui è allontanato per la sua posizione politica, schierata senza compromessi con il Fronte popolare (come già prima era accaduto con le dimissioni dalla direzione del “Giornale radio”). Vive e lavora a Roma, nell’appartamento di Piazza di Spagna, con terrazzo sulla scalinata di Trinità dei Monti, recandosi spesso a Vallerano, ai piedi dei Monti Cimini, dove ha una casa in mezzo alla campagna. Torna a collaborare al «Corriere della Sera», ma ancora una volta si dimette per essere stato attaccato su quelle pagine per la sua adesione politica al Fronte democratico; tra le varie collaborazioni, è anche critico teatrale e cinematografico del «Mondo» di Pannunzio.

Nell’autunno esce Quasi una vita, che raccoglie pagine di diario tra il 1927 e il 1947: il libro vince il premio Strega 1951, superando in finale le opere concorrenti di Soldati, Levi e Moravia. Nel 1954 deve sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente creduto benigno, come invece non era. Il 20 aprile 1956 esce sul «Corriere della Sera», dove era tornato a collaborare, il suo ultimo articolo, Pagine diverse: aggravatasi la malattia, che ha colpito i polmoni, muore a Roma nella sua abitazione il mattino dell’11 giugno 1956, lasciando molti inediti. La cerimonia funebre, nella chiesa romana di Santa Maria delle Fratte, è officiata dal fratello don Massimo; poi viene sepolto nel cimitero di Vallerano.

Unico degli scrittori calabresi di questo secolo ad essere entrato nella dimensione della classicità, Alvaro ha disseminato i suoi articoli nelle terze pagine dei maggiori quotidiani italiani («Il Mondo»; «Corriere della Sera»; «Il Messaggero»; il «Popolo di Roma»; «La Stampa»); è stato poeta innovativo (le Poesie grigioverdi sono del ’17); romanziere di respiro europeo (da L’uomo nel labirinto, del ’26, a L’uomo è forte, del ’38); diarista (Quasi una vita è tra i più bei giornali di bordo che uno scrittore abbia vergato); autore e critico di teatro (Lunga notte di Medea si pone di diritto tra i grandi testi tragici del nostro secolo); memorialista del mondo sommerso (la trilogia con tale titolo); e, inoltre, finissimo traduttore ed intellettuale e saggista di rilevanza assoluta, anche in virtù di un’esperienza cosmopolita che lo portò a vivere per qualche tempo a Parigi ed a Berlino ed a visitare, da inviato speciale, paesi ed entità antropologiche lontane (Turchia, Russia), con esperienze dalle quali scaturiscono i suoi libri di viaggio.

Una figura di grande complessità, data l’ampiezza degli orizzonti culturali ed ispirativi: Alvaro congiunge il microcosmo calabrese – il paese dell’anima che funge da sostrato a tutto il suo itinerario di scrittore – e la realtà europea, in cui ambiva innestarsi, ma senza cancellare l’identità storico-culturale dei padri. Nella sua opera si raggruma e si esalta l’immagine stessa della Calabria, riproposta nella grandezza della sua storia e nella sua fermentante forza d’irradiazione; e vi confluisce tutta una linea di tradizione culturale e di civiltà, che va dalle radici magnogreche a Gioacchino da Fiore, da Campanella a Padula.

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